L'Annichilimento Boschivo Della Sardegna
- Emanuele Meloni
- 22 gen 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 24 mag 2020

"Un tempo la povera Sardegna era chiamata granaio di Roma; adesso di tal fama non è degna. Il giardino, il podere, l'olivaio dei tempi antichi, si è trasformato in un triste e spinoso calvario. Boschi in cui mai è filtrato raggio di sole, misere giacchette han vestito ed il luogo ne han spogliato. Maestosi alberi che capanne parevan, per far ingrassare il continentale, han sfidato marette ed onde invise. [...] Vile colui che ha aperto le porte al forestiero che è arrivato con la sega per far di questo luogo un deserto. I Vandali con furia han lottato venendo da lontano per spartire i frutti, dopo che la terra han bruciato. Speriamo termini presto questo stato di cose doloroso: già in troppi siamo stanchi di soffrire."
Traduzione di un estratto della lettera a Nanni Sulis, del poeta Peppino Mereu (1895).

Fino al 1827, in tutto il territorio sardo, rimase in vigore la Carta de Logu, una raccolta di leggi scritta in lingua sarda, proposta da Mariano IV giudice d'Arborea, ed aggiornata e promulgata il 14 aprile 1392 dalla figlia Eleonora d'Arborea. Fu dunque il Re d'Aragona Alfonso V "il Magnanimo", nel 1421, a confermare la Carta di Eleonora all'interno della sede del parlamento di Cagliari, estendendone l'applicabilità a tutta l'isola.
ll testo ,attraverso una serie di norme che sopravvissero nonostante il susseguirsi delle dominazioni straniere, rappresenta un punto importante nel percorso verso l'attuale "stato di diritto", ed una visione modernissima di temi cardine come l'importanza di coerenza nei rapporti sociali, la tutela della posizione della donna, la difesa del territorio: a quest'ultimo, in particolare, non era applicato il diritto della proprietà privata, e identificava i grandi territori boschivi come luoghi comuni, fruibili a tutto il popolo, il quale poteva trarne vantaggi e, allo stesso tempo, averne il dovere di prendersene cura.

Si trattava dunque di proteggere una tradizione millenaria, attraverso la quale la vita e il sostentamento delle genti sarde erano legati indissolubilmente tramite un rapporto simbiotico a quelle risorse forestali, vegetali e faunistiche, che erano tenute rigogliose grazie alla preservazione attuata dai suoi stessi abitanti. Il tutto garantiva il mantenimento del microclima umido e temperato che aveva da sempre caratterizzato il territorio.
Rapporto che tuttavia fu lacerato, se non incenerito, dal regime del vicerè Carlo Felice di Savoia (il signore innalzato a statua nella Piazza Yenne a Cagliari), e dal Regio editto sopra le chiudende nel Regno di Sardegna: emanato il 6 ottobre 1820 dal Re Vittorio Emanuele I, esso formalizzava l'autorizzazione alla recinzione dei terreni che per antica tradizione erano considerati di proprietà collettiva, col pretesto di modernizzarne l'aspetto ed accelerare lo sviluppo di un'agricoltura ritenuta antiquata. Con la privatizzazione delle terre iniziò in tutta l'isola una diffusione degli abusi da parte di coloro che «non ebbero ribrezzo di cingere immense estensioni di terreni [...] al solo oggetto di far pagare a caro prezzo ai pastori e ai contadini la facoltà di seminarvi ed il diritto di far pascolare i loro armenti.»
Il Regno di Sardegna era infatti formalmente inglobato ai domini di Casa Savoia come effetto del trattato di Utrecht dal 1720 circa, ma i nuovi governanti in tutto il secolo non visitarono mai direttamente il territorio, e nominarono un viceré per svolgere l'attività amministrativa; la situazione cambiò quando la famiglia fu costretta a rifugiarsi a Cagliari in seguito alle pressioni delle armate Napoleoniche nel 1799.
L'interessamento alle risorse isolane (che fino a quel momento si limitava al mantenimento dei rapporti con la classe nobiliare) si accese col suddetto Regio editto delle chiudende del 1827 e sfociò con la Fusione perfetta del 1847, ossia l'unione politica ed amministrativa tra il Regno di Sardegna e gli Stati di terraferma posseduti dai Savoia, con la conseguente applicazione dello Statuto Albertino.
Oltre dunque alla distruzione del sistema normativo e governativo sardo, si avviò un'incosciente campagna di sfruttamento forestale per alimentare le nascenti industrie del nord Italia e per fornire materie prime che il regno Sabaudo commerciò in Europa per il mantenimento dei buoni rapporti diplomatici con gli altri stati europei di allora.

I documenti testimoniano che fu tra il 1820 ed il 1883 che il manto boschivo dell’isola si ridusse di quattro quinti raggiungendo la massima intensità di disboscamenti nel 1847, realizzati per fornire materia prima alle fonderie e per la produzione di carbone, la creazione di pascoli, e per il legname delle traversine impiegate nelle le ferrovie piemontesi e lombarde. Dopo l'Unitá d'Italia le richieste di combustibile si erano fatte più pressanti; parallelamente cresceva il malcontento dei ceti bassi verso uno Stato oppressivo. Nei territori interni scoppiarono dunque rivolte alle quali si accompagnò poi il fenomeno del banditismo, e molti furono i boschi inceneriti per scovare i latitanti che vi si rifugiavano al loro interno. Tra il 1863 e il 1910 lo Stato Italiano promosse e autorizzò l'abbattimento di foreste vergini per l'estensione totale di 586.000 ettari.
La trasformazione dell'ambiente fu affiancata dall'insediamento esponenziale di aziende lattiero casearie, in quanto la pastorizia divenne la principale attività, logica conseguenza alla riduzione di selvaggina. Si aprirono quindi le porte agli imprenditori laziali per la produzione del pecorino.

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